Donne in botanica

Recentemente mi sono avvicinato con interesse alla storia della scienza, concentrandomi in particolare su scienze naturali e botanica.
Ho iniziato a chiedermi chi fossero le menti dietro i nomi delle piante, spesso classificate in base a forma, utilizzo e caratteristiche morfologiche.
Ho cominciato a esplorare le vite dei tanti uomini che le hanno studiate, scoperte e portate alla conoscenza della comunità scientifica. Sono stato a Firenze, città-chiave per la botanica sia in Italia che in Europa. È qui, nella città di Dante, che ha visto la luce la prima Società botanica d’Europa, la Società Botanica Fiorentina, fondata nel 1716 per volere di Pier Antonio Micheli, prefetto dell’Orto botanico fiorentino. Negli anni successivi, importanti eventi come la costituzione dell’erbario Centrale Italiano nel 1841 con Filippo Parlatore e la stampa del primo numero del Giornale Botanico Italiano nel 1844, contribuirono a consolidare il ruolo di Firenze nel panorama botanico internazionale.

La storia della botanica italiana è intrinsecamente legata alle storie degli uomini che l’hanno coltivata. Tuttavia, per lungo tempo si è trascurato (e non poco) l’aspetto femminile. Per questo diventa particolarmente affascinante esplorare questo contesto storico, per comprendere il processo di allontanamento delle donne dal mondo della scienza botanica, indagando sulle motivazioni di questo distacco e sulle sfide affrontate da chi ha cercato di affermarsi in questo campo.
È allora interessante capire certe storie di donne che hanno contribuito in modo significativo alla scienza botanica. Questa narrazione offre uno sguardo approfondito sulle condizioni sociali, familiari e accademiche vissute da queste studiose nel corso dei secoli.
Tra queste figure, emergono le “Preziose”, donne che hanno giocato un ruolo fondamentale nei salotti letterari e scientifici dell’epoca, come la marchesa di Rambouillet.
Queste donne hanno incarnato un ideale di vita sociale basato sull’eccellenza intellettuale e spirituale, piuttosto che sul potere o sul denaro.
La loro acutezza di pensiero si è manifestata anche nei loro rapporti interpersonali, caratterizzati da affinità spirituali, onestà e capacità di gestire i conflitti con leggerezza e forza. Molte di loro sono state misconosciute o sottovalutate, ma la loro saggezza risiedeva proprio nella capacità di costruire relazioni e promuovere la cultura, le arti, l’istruzione e la scienza con eleganza e buon governo.

Narrazione circolare giapponese

Era il 1980 e il diplomatico Boris Biancheri, con sua moglie Flavia Arzeni, ispirarono Goffredo Parise a esplorare il Giappone in un modo diverso da come uno (a quei tempi) poteva aspettarsi, aprendolo all’arte giapponese e alle sue sfumature estetiche.
Il viaggio di Parise diventerà quasi un’esperienza zen e tante straordinarie illuminazioni improvvise.
Parise adotterà uno sguardo estetico interpretando il Giappone contrapponendosi all’analisi occidentale che aveva fatto per suo conto Roland Barthes.
Il libro di Parise, “L’eleganza è frigida”, offre una narrazione circolare, quasi un percorso iniziatico, riflettendo l’estetica giapponese in ogni sua forma, dalle arti visive alla gastronomia.
Qui Parise osserva che il Giappone ha affrontato l’industrializzazione in modo unico, mantenendo intatta la sua armonia estetica e che l’arte giapponese si manifesta in ogni aspetto della vita quotidiana, dall’abbigliamento alla cucina, andando oltre le teorie dei semiologi occidentali come McLuhan.
Perché in Giappone, la comunicazione è un’espressione profonda, non solo un mezzo di trasmissione. E la relazione tra estetica, morale e politica è strettamente intrecciata nella cultura, al contrario che in Italia, dove la politica prevale sulla morale.

Resistere e sperare

John Berger, acuto critico della cultura contemporanea e delle dinamiche sociali e politiche della globalizzazione, nonché scrittore militante, sostiene che quando una storia ci tocca profondamente, questa genera qualcosa che diventa parte di noi, la cui influenza può essere trasformatrice.
Berger, che si definisce storyteller, sottolinea l’importanza non solo di narrare, ma anche di osservare attentamente, con uno sguardo inquieto che è la sua firma di scrittore, profondamente solitario. Superati gli ottantasette anni, continua a denunciare l’oppressione della Palestina, rimanendo uno “scrittore contro”, fedele alla sua lettura realistica e poetica del mondo, simile a Pier Paolo Pasolini per passione e impegno profetico.
Attraverso il tradizionale artificio narrativo delle lettere ritrovate, Berger ci introduce a un romanzo dove Xavier, condannato a due ergastoli per presunte attività terroristiche, riceve le lettere della sua compagna A’ida. Nonostante la distanza e la dura realtà del carcere, A’ida riempie i vuoti con parole che evocano memorie e dettagli di una vita negata, componendo un canto struggente di attesa e desiderio per Xavier. Berger suggerisce che l’antitesi dell’amore non è l’odio, ma la separazione, rappresentata dalle mura della prigione, contro cui A’ida lotta con la forza dei suoi sentimenti, resistendo alla tentazione dell’oblio.
In questo intricato intreccio di parole e disegni, Berger esplora il potere dell’amore nel superare le barriere temporali e fisiche, offrendo una testimonianza profonda e toccante della capacità umana di resistere e sperare.

Da A a X. Lettere di una storia
di John Berger
Libri Scheiwiller, 2009


Una sorprendente scoperta

Immaginatevi seduti in una biblioteca inglese, avvolti dal profumo del legno e dei libri, dopo una calda giornata estiva trascorsa a esplorare testi del Seicento. Siete quasi pronti a uscire quando, scorrendo il catalogo online della biblioteca, notate tra le tante una lettera di Galileo Galilei indirizzata a Benedetto Castelli. La data indicata è il 21 ottobre 1613, ma, leggendola attentamente, notate un’altra data riportata in calce: il 21 dicembre 1613. Questo fatto suscita attenzione poiché coincide con la data della famosa lettera in cui Galileo rivendicò con forza la libertà della scienza.
Nel suo scritto, Galileo esortava a liberarsi dai dogmi delle Sacre Scritture, incoraggiando un’interpretazione al di là del significato letterale. Questa lettera venne copiata in molteplici versioni, conosciute dagli storici della scienza, ma una copia si distingue sulle altre proprio per il suo tono critico e acceso.
La copia oggi è ancora custodita negli archivi segreti del Vaticano e finì nelle mani dell’Inquisizione il 7 febbraio 1615 grazie all’intervento di frate Niccolò Lorini. Poiché si trattava di un duplicato e non dell’originale, risultava difficile stabilire quale delle due versioni indirizzate a Castelli fosse realmente di Galileo.
Storicamente, si sospettava che Lorini avesse alterato la lettera per incriminare Galileo, ma la recente scoperta dell’originale dimostra che fu Galileo stesso ad apportare delle modifiche per attenuare alcune espressioni inizialmente considerate troppo incriminanti.

Chi l’ha scoperta questa lettera è Salvatore Ricciardo, al tempo ricercatore presso l’Università di Bergamo impegnato nell’esame di testi stampati di Galileo nelle biblioteche inglesi, inclusi eventuali commenti di studiosi del XVII secolo.
Fino ad ora, non si era mai rinvenuto un “autografo” di questa lettera, ossia una versione scritta direttamente da Galileo.

All’apice della storia di Gaza

Gli scritti epistolari di Procopio ed Enea di Gaza svolgono un ruolo essenziale nel rivelare i gusti, le aspettative e i valori morali dei membri della scuola retorico-filosofica che fiorì nella città palestinese tra il V e il VI secolo. L’uso delle convenzioni letterarie delle epistole tardo-antiche e il tentativo di trasmettere una personalità non oscurano completamente la sfera privata di Enea e Procopio, che emerge dalle loro corrispondenze. In particolare, alcune lettere dirette a Diodoro, avvocato e amico comune ad entrambi gli autori, ci permettono di comprendere i complessi legami tra i sofisti cristiani di Gaza.

La Scuola di Gaza rappresenta uno degli ultimi momenti di fioritura della cultura greca in Palestina prima della conquista musulmana del 637. Grazie alla sua ubicazione geografica, la città di Gaza conobbe una notevole prosperità nell’antichità grazie al commercio di grano, vino, argento e spezie. Inoltre, fu un crocevia di popoli e culture diverse. L’ellenizzazione della classe dirigente avvenne con la conquista di Alessandro Magno nel 322 a.C. Con l’avvento del Cristianesimo e la dominazione romana nel 63 d.C., nuovi elementi si aggiunsero al panorama socio-culturale già complesso. Le tensioni tra pagani e cristiani furono violente fino all’inizio del V secolo, quando furono chiusi definitivamente i templi pagani e vietati i sacrifici alle divinità antiche. Tuttavia, a partire dal IV secolo, diverse comunità monastiche si insediarono nelle zone desertiche circostanti.

Il sesto secolo segnò l’apice della storia di Gaza. Il retore Coricio, attivo nella metà del secolo, descrisse Gaza come una città prospera con uno stile di vita elevato, affollata da turisti e pellegrini attratti dalle sue meraviglie artistiche. La principale attrazione, però, rimaneva la scuola retorico-filosofica, che continuò a prosperare anche dopo la chiusura dell’Accademia di Atene nel 529. Questo successo potrebbe essere attribuito alla fama di intellettuali come Procopio e Coricio, nonché alla capacità di Gaza di favorire l’integrazione tra il Cristianesimo e la cultura classica, una sinergia sostenuta dagli imperatori bizantini del periodo.

Don Lisander privato

Alessandro Manzoni, nel 1836, in procinto di partire dalla Toscana, si scusò con Michele Ferrucci di non riuscire a salutarlo di persona. Il testo evidenzia un’approccio stilistico molto classico, che richiama l’epoca ottocentesca. Si evince che chi scrive possiede un notevole bagaglio culturale, e questo presupporrebbe che il destinatario condivida una simile erudizione…

Al Prof. Michele Ferrucci, a Pisa

Viareggio, 16 settembre 1836
Non avendo potuto esprimerle a voce, come avrei tanto desiderato, i sensi d’un’antica stima e d’una recente gratitudine per le tante cortesie, ch’Ella m’ha voluto usare, mi permetta che, al momento di partire dalla Toscana, Le esprima almeno il rammarico, che ne provo, e mi raccomandi, con la confidenza ispiratami dalla sua bontà, alla sua gentile memoria. 
Suo devot. e affez. servitore 
Alessandro Manzoni


Ma chi era Michele Ferrucci? È stato un noto latinista ed epigrafista italiano.
Nato a Lugo nel 1801, studiò matematica e fisica nella sua città natale, poi retorica nel seminario di Faenza. In seguito, si trasferì a Bologna per gli studi universitari, dove ebbe come insegnanti il linguista Giuseppe Gaspare Mezzofanti, il letterato Giambattista Grilli Rossi e l’epigrafista Filippo Schiassi, con il quale sviluppò una stretta amicizia e collaborazione.
Fin da giovane, si distinse per la sua abilità nella lingua latina e la composizione di epigrafi. Tra il 1824 e il 1826, insegnò a Macerata e lì conobbe Caterina Franceschi, una studiosa di latino che sposò nel 1827 e con cui ebbe due figli: Antonio (1829) e Rosa (1835). Nel 1827, divenne professore sostituto all’Università di Bologna.
Nel 1832, divenne membro dell’Accademia delle scienze di Torino. La sua partecipazione ai moti del 1831, limitata alla creazione di alcune epigrafi latine, ebbe un impatto negativo sulla sua carriera accademica. Fu rimosso dall’insegnamento dopo il ritorno del governo pontificio e, anche dopo una retrattazione delle sue idee, gli fu negata la cattedra di archeologia.
Cercò una nuova opportunità e nel 1836, grazie all’interessamento del conte di Cavour, si trasferì con sua moglie a Ginevra, dove insegnò letteratura latina. Nel 1843, ottenne un incarico per insegnare storia e archeologia all’Università di Pisa, e dal 1845, aggiunse anche le lezioni di lettere greche e latine.
Nel 1848, sostenne entusiasticamente l’elezione di Pio IX come Papa, ma fu coinvolto nella prima guerra d’indipendenza italiana come capitano volontario. Dopo la guerra, riuscì a mantenere la sua posizione accademica mentre altri professori con idee liberali furono rimossi.
Nel 1859, durante la seconda guerra d’indipendenza, continuò ad insegnare nella riformata Università di Pisa. Morì nel 1881 a Pisa e fu sepolto nel cimitero locale. Durante la sua vita, donò il suo carteggio all’ateneo cittadino, che includeva lettere autografe di noti autori come Leopardi, Manzoni e Foscolo. Dopo la sua morte, suo figlio Antonio donò anche la sua vasta biblioteca all’Università.
Scrisse numerose iscrizioni per personaggi storici o coevi, tra cui una per Arminio, l’eroe germanico. Ci fu una controversia riguardo alla datazione di queste iscrizioni, ma furono effettivamente composte nel 1840, quando insegnava a Ginevra.
Lui e sua moglie Caterina, anch’essa studiosa e poetessa, organizzarono un salotto letterario a Pisa, frequentato da intellettuali e personaggi illustri della Toscana.

Lettere dal carcere

Le lettere di Antonio Gramsci dal carcere, scritte quasi un secolo fa, ci rivelano ancora oggi pensieri elevati e assoluti. Anche chi non lo conosce bene non deve sentirsi intimidito; le sue lettere sono semplici e accessibili.
Antonio Gramsci, segretario del partito comunista italiano, fu arrestato nel novembre 1926 e condannato a vent’anni di reclusione. 
La maggior parte delle lettere ci raccontano la sua vita quotidiana in prigione.
Scrive principalmente alla sua famiglia in Sardegna: al padre, alla madre, alle sorelle, e al fratello Carlo a Milano.
Le altre lettere sono indirizzate alla sua famiglia acquisita, quella russa. Sua moglie Giulia e i suoi due figli, Delio e Giuliano, sono importanti nella sua vita. Tatiana, sua sorella maggiore, è una corrispondente costante e affettuosa. Svolge un ruolo fondamentale come tramite tra Gramsci e la moglie Giulia, oltre a trasmettere domande culturali o giuridiche a Piero Sraffa, il suo amico più caro. Questo “triangolo” di comunicazione, Antonio-Tatiana-Piero, genera un dialogo proficuo per Gramsci, che ammette di aver bisogno di un interlocutore per sentirsi intellettualmente stimolato.
Le lettere ci offrono uno sguardo sulla cultura cosmopolita di Gramsci, che abbraccia la cultura italiana, ma anche quella francese, inglese, tedesca e russa. Tuttavia, rimane legato al mondo popolare italiano attraverso osservazioni occasionali.
Queste lettere, scritte durante il confino e la detenzione, devono superare la censura carceraria e quindi sono soggette all’autocensura sia sentimentale che politica.
Gramsci non può discutere apertamente il regime fascista o le questioni del movimento comunista internazionale.
Nonostante le restrizioni, il suo stile di scrittura è notevole, con un uso ricco di allusioni, rimandi e immagini suggestive. Uno sguardo profondo e acuto nella sua mente tormentata, tra momenti di suggestione importanti e note dolenti sulla sua salute.