Le unghie di Cheche

Cleofe Clelia, classe 1884, nasce in un antico casone di paglia lungo l’argine del Piave. 
Cleofe Clelia la chiamano tutti Cheche, un nome che si è data da sola appena ha cominciato a farfugliare le sue prime parole.
Cheche vive di nulla, “come certi insetti ai quali basta una stilla di rugiada” e “cammina senza fine, in un’ansia di moto perpetuo”.
Cheche sembra una sorta di strega che, in un modo segreto, fa “scaturire il bene come fosse un’esalazione naturale, quasi un magma primigenio”. Un magma importante che porta “in superficie l’essenza divina dell’uomo”.
Di Cheche scrive Claudio Rorato e lo fa con un racconto che emoziona e riesce a far immedesimare come davvero pochi racconti sanno fare. Un racconto ricco di parole sospese nel tempo. Parole che, quando le leggiamo, si vestono di luce e oro.

Ricordati dei fiori

Ricordati dei fiori COPERTINA 2Già l’idea di scrivere un libro che parla della morte è un rischio letterario. Il tema solletica quanto l’amore, nelle forme più disparate e la banalità è sempre in agguato, a meno che non si tratti di un romanzo giallo, dove per convenzione la nera signora entra per diritto prepotente, anche quando non aggiunge una lettera, che sia una, a tutto ciò che è già stato detto e per omnia saecula saeculorum amen, nel suo genere.
Lo strano libro di Giuseppe Braga Ricordati dei fiori, uscito a maggio 2015 per l’editore Priamo, percorre una strada per quanto possibile veramente originale.
L’autore, provvisto di tenerezza e di spirito di osservazione autentici, scrive un curioso e piacevole livre de chevet, dove la narrazione procede per racconti essenziali con descrizioni spesso lapidarie (mi si perdoni l’accostamento cimiteriale), o per baluginanti considerazioni o anche per citazioni: ognuna di esse progressivamente numerate e su cui è possibile ritornare a riflettere. L’evento da cui muove è la morte prematura del padre. Fin qui siamo nella dolorosa normalità. Ma l’intenzione letteraria si dipana in una forma dall’espressività, quasi toccante, di colta ingenuità: nel testo non entrano le ardite speculazioni filosofiche sul Mistero, se prima non sono state rese potabili attraverso un’operazione di sapiente traduzione. Risaltano soltanto da aneddoti, dalla singolare minuziosa osservazione della vita che scorre accanto alle sepolture, giacché sono sempre i vivi, cioè chi resta, a definire il senso dei gesti comuni, delle piccole manie, degli atti di pietà e a farne scaturire emozioni o atteggiamenti di discutibile significato, dove i sentimenti si mescolano con il kitsch degli arredi funebri. E dove l’involontaria comicità delle situazioni si fonde, per le regole che dominano la realtà quotidiana, al dolore profondo. Braga teme, con grande pudore, che la pesantezza di un racconto così toccante, le conseguenze della perdita del caro papà, possano trasformarsi in un esito lacrimevole. Così alterna ai passaggi di una cronaca familiare davvero commuovente altrettanti stacchi dove entrano con pari dignità definizioni da humor inglese che stemperano, ma senza mai sporcarla, l’atmosfera sconvolgente che fa immediato seguito al lutto.
L’autore fa avvertire al lettore la potente implosione che scatena la percezione dell’assenza inesorabile, ma quasi mai riferendosi, come misura del dolore, a se stesso. Piuttosto si serve discretamente degli altri che sono coinvolti nell’identico dramma e soprattutto della madre: sono quelli suoi gli occhi che luccicano e i tremori. Oppure, quasi a esorcizzare la ferita, scarica sul fratello la propria tensione, facendolo apparire quasi inopportuno e invadente, nella sua capacità di sognare spesso il padre e di farne partecipe appunto la mamma, rinnovandone così il dolore. L’autore usa figure emblematiche, come l’amico Pietro, quando traccia percorsi che portano a indagare in astratto sul nostro destino, anche se l’operazione è facilitata, ma solo in apparenza, da una dose troppo abbondante di birra che invece aggiunge ulteriore confusione all’enigma insolubile.
Gli appartengono direttamente le descrizioni attraverso gli oggetti, come l’auto da vendere che quasi assume un valore personificato, la ruspa, le statuine, i fiori e tanti altri simboli. Tutti questi rendono al lutto la dimensione malinconica, ma umanissima che gli compete: non conosciamo la morte e forse non è neppure il caso di pronunciare questo nome terribile. Ci appartiene il regno della vita che pure scorre quotidiana intorno ad essa e da essa ricava paradossalmente un motivo per esistere, corazzati da una garbata, ma non impudente ironia. È un bel libro da consigliare per la lettura, questo di Braga: assolutamente scorrevole, scritto sempre facendo attenzione alla lezione di Calvino che impone leggerezza, sorriso, anche se malgrado tutto potranno, maledizione alla debolezza, comparire delle lacrime specie a chi riconosce nel testo il percorso di una propria esperienza vissuta.

(di Roberto Masiero)

Le affascinanti manie degli altri

«Sabato sera» sottolineò Isabel Dalhousie. «Fischiano le orecchie».
Guy Peploe, seduto di fronte a lei in un angolino sul retro della caffetteria Glass and Thompson, le rivolse uno sguardo confuso. Isabel aveva la tendenza a pronunciare frasi enigmatiche — lui lo sapeva, e non ci faceva più caso — ma questa gli parve più sibillina del solito.
Mescolò il caffè. «Non ti seguo, Isabel. Lasciatelo dire. Orecchie che fischiano?»
Isabel sorrise. Non intendeva fare la misteriosa ed era stato Guy, del resto, a introdurre l’argomento «sabato sera»; lei aveva solo raccolto lo spunto. L’amico aveva parlato di un’inaugurazione a cui aveva partecipato il sabato precedente, una mostra dedicata a un pittore realista scozzese, ignorato in vita e ora acclamato come un genio. C’erano tutti: o meglio, tutti quelli che andavano alle inaugurazioni del sabato sera nelle gallerie, aveva rimarcato Guy ridacchiando. I restanti quattrocentottantamila abitanti di Edimburgo e dintorni con ogni probabilità stavano facendo altro.

Alexander McCall Smith, Le affascinanti manie degli altri,Isabel Dalhousie è una filosofa riflessiva, ma tutt’altro che prudente. Ha fiducia nella vita che evolve (e muta) e ci fa scoprire il lato di filosofia applicata alla nostra vita di tutti i giorni.
La realtà più abituale ha molto di che sorprenderci. L’altro, che crediamo di conoscere, è un infinito che fugge a se stesso… Il quotidiano è così come lo creiamo e di quotidiano in quotidiano la vita passa, si trasforma. Per questo aprire gli occhi tutte le mattine significa essere vivi e Isabel Dalhousie sa che per amare il quotidiano è sufficiente questa semplice constatazione. Lei pone sempre domande alla vita mantenendo per tutta la giornata la chiarezza del mattino. Aprire gli occhi anche quando nessuno ci spinge a farlo, significa scegliere lo stupore come posizione esistenziale. Lei non è una detective tradizionale, però non ha mai rifiutato una richiesta diretta di aiuto e sa vivere una vita piena, sa rallentare e sbagliare. Sa andare incontro alle situazioni più diverse per cogliere il nuovo nascosto dietro al vecchio, il cambiamento che si agita sotto l’apparente ripetizione dell’identico.
“Il sole è nuovo ogni giorno!”, diceva Eraclito.

Alexander McCall Smith, Le affascinanti manie degli altri, traduzione di Giovanni Garbellini, Guanda 2014.

Un posto sbagliato per morire

tuzziLeggendo Hans Tuzzi possiamo osservare quanta abilità può rivelare la narrazione e come ogni frase sia tesa, ogni immagine piena. Ogni dettaglio, anche il piú insignificante, è importante.
Poi, all’improvviso, qualcosa di torbido e inesprimibile emerge alla superficie, cercando di penetrare, di afferrare qualcosa. E la nozione del tempo traballa come un vagone dall’asse allentato…

Hans Tuzzi, Un posto sbagliato per morire, Bollati Boringhieri, Le Piccole Varianti, 2014.

Mi chiamo…

mi chiamoIn quella sera di maggio, nella sua stanza da letto, nella notte infinita come l’angoscia, lei è sola, completamente sola, ed ha paura. Le manca il respiro e implora il suo cuore perché smetta di battere così forte. Sgrana infiniti perché senza risposta e  il tempo che scorre lento  su un rosario di dolore, nel tentativo di dominare la paura e pensare. I ricordi. Ecco, ripercorrere i ricordi da quel tempo lontano in cui è stata felice, quando era solo una bambina, Domenica si chiamava – il suo nome, allora, non faceva paura – , e con le sue tre sorelle godeva del mare e del sole che scaldava anche l’anima nel suo paese, giù in Calabria. Fino a che le prime ombre erano giunte a turbare la sua gioia di vivere e, brutali, le avevano insegnato l’abbandono e l’insicurezza, quando suo padre, quell’uomo forte che amava i libri, aveva lasciato sole le sue donne ed era andato via. Poi era arrivata la musica a salvarla, e lei aveva scoperto che la sua voce era capace di sollevarla sulle sue fragilità. Era diventata forte allora, e quella bambina spaventata e incerta che voleva cercare la libertà in Amazzonia era diventata una donna che sapeva cosa voleva dalla vita. ”Io volevo solo cantare. Riempire il vuoto con le parole e con la musica.” E lei sapeva farlo bene, meglio di tutti, perché sapeva commuovere e toccare le corde del cuore. Lei ora è Mimì, in tanti le vogliono bene ma la sua fame d’amore non si appaga. Ha successo e uno come Charles Aznavour, dopo due anni,  la vorrebbe con sé ancora  in tournée. Ma l’invidia è una brutta cosa e sa farsi subdola e strisciare viscida, insinuandosi lenta proprio  nell’ambiente in cui lavora. Suo padre, da bambina, le aveva insegnato quella parola greca che è un peccato terribile, la hybris, il peccato di chi è bravo e vuole andare oltre, terribile perché scatena l’invidia degli dei. Ma gli dei non esistono, e tuttavia c’è la gente che è capace di fare non meno male. E il caso, poi, sa essere cattivo quanto la gente, quando comincia ad inanellare episodi stupidi a vicende tragiche. Lei, Mimì, non ha colpa, ovviamente, ma diventa “quella lì”, quella il cui nome fa paura, è impronunciabile, perché fa accadere brutte cose. Perché dicono questa cosa terribile, che cresce, cresce come una valanga? “Come se si rispondesse a una fame antica. La fame di scaricare altrove i propri problemi o di trovare una soluzione all’incomprensibilità della vita.” Ora anche lei ha paura di quel nome, lei che adesso è sola in quella stanza con la sua sofferenza, lei che sa che dovrebbe chiamare qualcuno ma non ce la fa, lei che, rannicchiata su se stessa, cerca di smettere di pensare perché le fa troppo male, cerca di dormire, respirare e dormire. Per riposare, finalmente. “Adesso non c’è più poesia.”

Il 12 maggio 1995 muore, in circostanze dubbie, Mia Martini, una della voci più straordinarie del panorama musicale italiano. L’autopsia parlò, all’epoca, di una overdose di medicinali. Mimì era stata sempre una donna apparentemente forte e piena di gioia di vivere ma mai aveva sanato la ferita causata dall’abbandono paterno; aveva sempre portato nel cuore il sole della sua terra e quando cantava era capace di trascinare chiunque l’ascoltasse nel mondo meraviglioso creato dalla sua voce. Tormentata ma entusiasta è stata capace di cadere e risollevarsi più volte, di superare tanti momenti critici nella sua vita artistica e privata, rialzandosi ogni volta più forte e più coraggiosa di prima. Ma tutti abbiamo un limite oltre il quale non si riesce a sopportare, oltre il quale è difficile prendere altri schiaffi. Mimì donava l’amore di cui era capace attraverso la sua musica, ma aveva bisogno di riceverne altrettanto. Ed invece, soprattutto il suo mondo, quel mondo dello spettacolo così legato alla superstizione, per invidia ha ripagato la sua generosità di donna e di artista con la subdola e infida maldicenza, affibbiandole la nomea di iettatrice. Una cosa assurda, che farebbe anche sorridere, se non fosse che la paura e la cattiveria si autoalimentano e sanno diventare pericolose, molto pericolose. Fino a spegnere il sole dentro, e poi a distruggere la vita.

Aldo Nove, scrittore e poeta di successo, racconta le ultime ore di Mimì, immaginandola sola, a parlare – come Archiloco più di duemila anni fa – col suo cuore impazzito, con i ricordi felici, con quelli terribili. Alle prese con perché senza risposta, a tentare di non avere freddo, a fingere di dimenticare il buio. Ma “È notte dappertutto.”
Il ritmo sincopato, la prosa lirica asciutta e paratattica, destinata alla descrizione di quelle ultime ore, danno il senso del tempo del cuore accelerato e quello del respiro spezzato  di chi sente l’angoscia premere sul petto. Questi momenti si inframmezzano al racconto dei ricordi, nella ricostruzione dolente di una biografia fatta di luci ed ombre, racconto che ha altro linguaggio, quasi fanciullo nella sua spiazzante semplicità. È un pugno allo stomaco doloroso leggere questo libro, significa immaginarsi nella sofferenza generata dalla cattiveria e dalla stupidità, significa cum-patire, sentire insieme, e stare male con Mimì. Un libro, dunque, per chi l’ha amata e ancora la ama, perché magari lei forse può ancora sentirlo quell’amore di cui si nutriva e che in vita non le è bastato. Ma un libro anche per conoscere un aspetto ulteriore della mediocrità umana, della piccineria italica che ha preferito mostrarsi ignorante e abbandonarsi ad un retaggio assurdo come la superstizione, piuttosto che riconoscere la bravura altrui. Un libro, infine, per chi ha conosciuto notti come quella immaginata da Aldo Nove, “la lunga notte dell’anima” per dirla con San Giovanni della Croce, ma senza l’incontro finale e consolatorio con la luce, le notti di chi ha conosciuto il dolore che fa paura, o la paura che fa male. Che è la stessa, terribile, cosa.

Aldo Nove, Mi chiamo…, Skira, Milano, 2013.

(Alessandra Farinola)

Scrittori in viaggio

C’è un bambino di sette anni che prende un vecchio treno malmesso per attraversare campagne e colline e per affacciarsi dal finestrino e godere del vento sul viso: mica gli interessa cosa ci vada a fare al Pelagallo, il vecchio ospizio che è la loro meta, la giovane che lo accompagna, né perché non sia contenta quanto lui di andarci. Ci sono i pensieri, sparsi lungo un percorso qualunque, di un tale che ne sta per condividere alcuni importanti con un amministratore delegato. Ci sono strani giochi, una sorta di caccia metropolitana tra lo sferragliare  dei binari e le facce stravolte dei pendolari. C’è “il tempo  vuoto del pendolarismo”  incredibilmente “trasformato in quello della poesia”. C’è chi, dopo aver desiderato a lungo un’auto, capisce che solo su un bus dell’Atac gli potrà capitare di godersi il sorriso di Roma, quello che fa sorridere anche te, pure se non lo vuoi. Ci sono gli addii, rapidi, brevi, affilati e taglienti come un racconto di poche parole, che fanno male come un fermo immagine di binari inesorabilmente paralleli in quel ventre caldo e indifferente della terra che è una metropolitana. Ci sono viaggi senza ritorno in compagnia di una vecchia pazza e della voce di un poeta che ha scritto il nome sull’acqua o  paralleli a ciò che non si è realizzato e vissuto. Ci sono le paure, che nei ricordi e nella nostalgia dell’adolescenza hanno uno spazio preciso: quello sporco, pericoloso, puzzolente di un sottopassaggio. Ci sono strani incontri che insegnano a dubitare di chi, in uno scompartimento, sfugge gli sguardi e non ha voglia di scambiare due parole. C’è la metropolitana che può diventare una strana terapia dagli esiti dubbi. Ci sono viaggi da incubo in cui manca l’aria ed è difficile dominare un attacco d’ansia oppure viaggi che regalano incontri di sguardi dagli sviluppi interessanti.

Tutto questo e altro ancora in questi ventuno racconti divertenti, alcuni bellissimi, altri tristi, altri stranianti, almeno quanto le fotografie che a ciascuno di essi si accompagna. Racconti spesso brevissimi di viaggi più o meno reali, più o meno lunghi, più o meno piacevoli. Ma un viaggio, qualunque viaggio, reale o simbolico che sia, è soprattutto emozioni, suggestioni, sensazioni, pensieri che si rincorrono, ricordi che si riaffacciano, rimpianti che graffiano, nostalgie che affiorano. Nel grigiore di certa monotona quotidianità, connotata dal precariato e dal pendolarismo privi di riferimenti e certezze, si insinuano speranze, aspirazioni, relazioni curiose, amori a senso unico disegnati su un solo sguardo. E ancora, desiderio di ricominciare da qualche parte, voglia di rifugiarsi nella folla, illusione di dimenticare o di crederci ancora …
Nato da un viaggio in treno al limite del surreale, come capita a tanti nella nostre beneamate ferrovie, vissuto dal curatore dell’antologia Alex Pietrogiacomi, scrittore, giornalista e consulente editoriale, e dal fotografo Gianluca Giannone (che stava raccogliendo scatti tra i pendolari delle prime ore del mattino per un suo progetto), l’agile libretto dal formato tascabile sia avvale dei contributi di ventuno penne, diverse per esperienza, età, sesso, che hanno scritto indipendentemente e, in larga parte,  senza nemmeno conoscersi, coordinandosi in un gruppo su facebook. La prefazione è dello scrittore Filippo Tuena, la postfazione del giornalista John Vignola.

Una citazione tra le tante possibili: “ Il treno è abbastanza veloce da non farti pensare, abbastanza lento da lasciarti scrivere, male “.

(di Alessandra Farinola)

La melodia del vento

Da un anno Abigail ha perso suo marito e suo figlio nell’incendio della loro casa. Dopo essersi con fatica rialzata si è ritirata a Chapel Isle e non ha voluto raccontare a nessuno del suo passato.
Abigail è una lessicografa e, amando le parole, conosce anche gli effetti che queste possono avere su una persona. Non pensa a se stessa come a una vedova e vive alla giornata.
E’ stata rintanata per mesi e restare in casa un pomeriggio a leggere sul divano è il suo personale meccanismo di difesa.
Ha ritrovato un po’ di serenità, ma non ha fine settimana liberi, né ferie né giorni di malattia.
Va in paese solo per fare la spesa o due chiacchiere con la sua amica Ruth. Altrimenti, resta al cottage del guardiano del faro da sola, a svolgere la sua nuova attività.
Passato l’inverno, però, Chapel Isle viene però invasa da auto, minivan e furgoncini che riempiono le strade in modo sfacciato e indiscreto. Gente con le magliette di Chapel Isle, yacht vistosi ormeggiati ai moli al posto dei pescherecci, musica a tutto volume dalle macchine che passano, cartacce a riempire le fessure tra i ciottoli. Tutta la vita caotica da cui si è allontanata le sta arrivando fino alla soglia di casa e Abigail non è sicura di riuscire a sopportare tutta quella pressione…

Un piccolo gioiello trasparente, dorato e ammaliante in cui ogni particolare viene rappresentato con estrema minuzia e con un passo veloce e leggero allo stesso tempo.


Ellen Block

La melodia del vento
(traduzione di Rita Giaccari)
Corbaccio
2012